MIMESIS-SCENARI
UN COMPOSITORE AL CINEMA: PIANI PARALLELI DI GIOVANNI MAZZARINO E GIANNI DI CAPUA
GIACOMO FRANZOSO
UN COMPOSITORE AL CINEMA: PIANI PARALLELI DI GIOVANNI MAZZARINO E GIANNI DI CAPUA
GIACOMO FRANZOSO
UN COMPOSITORE AL CINEMA: PIANI PARALLELI DI GIOVANNI MAZZARINO E GIANNI DI CAPUA
Quel che conta davvero è l’idea del momento. Soprattutto è importante l’assenza di una chiara aspettativa. Allora il segreto è il sapersi accontentare, l’essere soddisfatti del risultato ottenuto seguendo l’idea di quel momento particolare.
Il messaggio recitato da voce fuori campo con cui si apre il nuovo film di Gianni Di Capua è il nucleo da cui inizia la narrazione di un nuovo viaggio musicale. Si tratta di un racconto sull’essere musicista e compositore, su compositori e musicisti. Il film è interamente girato nella stupenda Fazioli Concert Hall di Sacile (PN) attigua all’importante fabbrica di pianoforti. Quelli prodotti qui sono strumenti eccezionali, fuori dal comune. Ognuno ha una personalità propria, distinta ed essenziale, dalla voce riconoscibile in maniera univoca. Il piano che suona il protagonista Giovanni Mazzarino, pianista e compositore siciliano tra i più importanti nel panorama del jazz contemporaneo, porta il nome di Mago Merlino. È battezzato così nella dedica scritta a pennarello sul telaio da parte del grande Aldo Ciccolini, il quale augurava nel 2005 “tanta felicità” agli artisti che l’avessero suonato dopo di lui.
Piani Paralleli (una produzione Bliq, Jazzy Records, Kublai Film, 2017) è un nuovo film-concerto che chi scrive suggerisce di andare a vedere, perché ti lascia con il desiderio di tornare al cinema una seconda volta, per riascoltarlo. Questo concerto a porte chiuse documenta un momento unico e straordinario, esattamente sulla scia dell’idea del momento, quello cioè delle prove e registrazione della Suite per Quartetto Jazz e Orchestra d’archi di Giovanni Mazzarino, che celebra così i suoi trent’anni di carriera. Il tutto è ripreso da tre telecamere che si muovono nella mezza luce della sala tra aste, microfoni, strumenti e luci, facendoti vivere l’esperienza di essere lì presente. La ripresa del suono è seguita da Stefano Amerio, apprezzato sound engineer di Artesuono di Udine.
Per Mazzarino la capacità, o meglio l’arte, di seguire l’idea del momento e di sapersi accontentare è la giusta modalità che muove l’intuito e la creatività del compositore. Essa non implica la rinuncia della ricerca di una nuova forma, anzi è proprio ciò che permette di andare avanti in tale ricerca. Si tratta di un atto che stimola la creatività, e non di una limitazione. Se così non fosse, s’instaurerebbe una lotta con se stessi, ripetutamente insoddisfatti e infelici della forma ottenuta: una modalità, questa, che rende sterile la ricerca creativa. Oppure sarebbe una lotta per cercare di uscire forzatamente da qualsiasi codice prestabilito, finendo col perdere tante occasioni che definiscono la nostra esperienza e la capacità di rinnovare il linguaggio musicale.
Il protagonista spiega che i suoi collaboratori sono persone, musicisti alla continua ricerca di un’idea musicale. Perché la musica è un racconto di idee. La musica così intesa, secondo Mazzarino, non è di tutti. Suonare uno strumento è di tutti, perché è un mezzo di espressione che tutti possono usare. Ma trovare la strada per tradurre in musica una poetica, questo no, non è di tutti. L’apprezzamento, l’estasi o la critica nei confronti di un’opera musicale sono di tutti, ma pochi sono gli autentici cercatori d’idee. Perché è nel mondo delle idee, riprendendo il principio fondamentale della filosofia platonica, che la musica esiste. La conoscenza è di tutti, continua Mazzarino, ma il contato con l’idea è un principio più esoterico, destinato a pochi.
Steve Swallow è uno di questi ricercatori, bassista che è una leggenda vivente del jazz moderno. Lui suona (ancora) il basso elettrico a cinque corde con il plettro, perché lui ricerca un suono identitario. È un musicista che “scrive senza far rumore” perché nella sua lirica e nella tecnica pensa come un solista. Egli esprime una sintesi completa del sentire e della sensibilità, quel contatto con l’idea, con il momento dell’idea, che si traduce in un gusto raffinato per la melodia.
Tutto il jazz è musica del momento. Una definizione di jazz può essere quella che lo vede come un movimento culturale che fondamentalmente rappresenta l’integrazione. Il jazz è come un racconto di ognuno e di tutti allo stesso tempo. Attraverso la conoscenza, che è di tutti, gli opposti si attraggono, si scrutano prima e si apprezzano poi, e infine…suonano insieme, se sono musicisti. Jazzista di grande fama, Fabrizio Bosso traspone sul suo strumento la cantabilità ricercata dal compositore. Tromba e flicorno sono i solisti più compatibili con l’orchestra da camera, scelta perché gli archi (violino, viola, violoncello, contrabbasso) sono gli strumenti dalla più spiccata forza melodica, capace di creare un dramma.
Bosso è musicista speciale, che porta in sé un “mondo bello”, riportando le parole di Mazzarino. Perché crediamo sia un mondo bello, quello delle idee. Sono idee sincere e di verità, quelle che sanno creare una musica che fa convivere il quartetto jazz con l’orchestra d’archi. Questi solo apparentemente (ma pare che ancora in molti non ci credano) sono mondi lontani. Sono diversi, e nella diversità si trova la creazione del nuovo. Grande capacità di sintesi quella che distingue Paolo Silvestri, arrangiatore del progetto e direttore della sezione d’archi. Sua la capacità di scrivere per gli archi in modo da far suonare dei musicisti classici, con il loro linguaggio, delle parti che dialogano sempre in parallelo con i musicisti jazz e con il loro linguaggio. L’Orchestra Accademia d’Archi Arrigoni ha un’estrema sensibilità nei confronti delle dinamiche e della creazione di atmosfere coloristiche. Riesce a portare tutto il suo bagaglio di esperienza classica a fondersi con la lirica rigogliosa di Fabrizio Bosso, che improvvisa con frasi di lungo respiro. Creare l’atmosfera giusta è l’obiettivo riuscitissimo di Paolo Silvestri, in particolare con richiami alla musica colta del Novecento, come quella di Hindemith e Ravel.
Tutta la suite è un quadro di mille colori e timbri, un fertile incontro di scrittura e improvvisazione, ricco di cambi di ritmo e di metro. La batteria di Adam Nussbaum – altro collaboratore di lunga data di Mazzarino, al pari di Swallow – è il collante di tutto il gruppo, con un tocco tanto leggero quanto carico d’energia, e sempre elegantissimo nel portare il tempo e, insieme, nel sottolineare gli accenti. Per Mazzarino la batteria è lo strumento che serve a far sentire sempre le note importanti, perché rinforza e carica di senso le melodie. Si tratta anche in questo caso di un musicista estremamente sensibile e dal raffinato senso melodico. L’opera tutta è un lungo canto: vedendo e ascoltando tutto il film sembra un’unica lunghissima melodia senza fine. Interessante proporre in questi anni una suite jazzistica (ricordiamo qui il celebre esempio di Freedom, composta da Duke Ellington per il suo Second Sacred Concert), che sa sintetizzare in una lingua contemporanea l’antica tecnica compositiva del tema e del suo sviluppo.
Un particolare prezioso è che nell’orchestra sono presenti anche dei giovanissimi musicisti, che dividono il leggio con chi è più adulto e porta una lunga esperienza. Sono le persone più giovani quelle forse più adatte a fare nuova musica, per loro inclinazione e curiosità. Il compositore, nel pensiero di Mazzarino mentre racconta il film, tende all’innovazione del linguaggio. La vera innovazione è quella che egli opera su se stesso. La nuova creazione e il rinnovamento avvengono però in seno all’attesa, questa è la novità. L’innovazione coincide con l’attendere il momento creativo. Il film ci insegna che nell’attesa c’è tutto ciò che serve per voltare pagina. Il tempo del raccoglimento riflessivo non è mai perso: al contrario, è tempo necessario per prendere coscienza di ciò che abbiamo, accontentandoci di ciò che siamo. Questo stato di coscienza nel presente mi permette di nutrire i semi del rinnovamento creativo. Per fare la mia nuova musica posso iniziare apprezzando l’attesa del momento più adatto ad affermare una mia idea nuova. La qualità del momento presente dà al compositore la possibilità di gioire alla futura sorpresa, quando starà scrivendo, forse, la prossima suite.
La musica è un luogo retto da regole naturali di relazione, come quelle matematiche tra le altezze, quelle qualità sonore che percepiamo come note. Nella filosofia musicale di Mazzarino “la bellezza è il contorno alle regole naturali di relazione”. La musica è relazione: tra mondo ideale e terreno, tra musicisti, tra compositore e arrangiatore, e tra generi musicali. Di tutte le forme d’arte è certamente quella che più incarna il senso della relazione.
La relazione implica la fiducia, e cioè quella qualità che mi permette di essere libero mentre suono. Sono libero se posso essere concentrato sullo strumento, sapendo che chi suona con me è altrettanto rispettoso di se stesso, del gruppo: infine della musica. La fiducia è tratto essenziale che devono avere i musicisti gli uni nei confronti degli altri, e anche di tutti gli altri collaboratori, come arrangiatori e tecnici. Un’opera crea un dramma quando ti sa trasportare dentro il suo mondo, che ha le stesse regole che governano ogni relazione tra gli uomini.
Piazza è il brano dedicato a Piazza Armerina, città natale del protagonista. Egli dice che “la piazza è il luogo in cui la gente s’incontra a sperare un mondo migliore”. Le riprese ci mostrano come Mazzarino, nell’esporre il tema così lirico e drammatico con la mano destra, non riesca a trattenere la sinistra dal fare segretamente il gesto della direzione d’orchestra. Mazzarino dirige forse nel suo intimo questo pezzo che unisce le genti, il nord con il sud, perché esiste una verità: essi non sono diversi, e sanno parlare la stessa lingua.
Notturno è un brano di musica classica, suonato in piano trio. È una melodia che ha un non so che di sacro: parla al cuore attraverso quella che Mazzarino definisce forza triadica, la forma armonica più semplice, che è diretta ed efficace…forse, infine, voleva dire che è vera.
Piani Paralleli inizia con un’introduzione classica di soli archi, che ricorda il suono del celebre Gershwin’s World di Herbie Hancock. Il brano che dà il titolo al film ha la tipica energia di brano conclusivo, una summa dei temi e delle idee prima esposte negli altri pezzi, con una coda finale ritmicamente molto incalzante, che fa davvero immaginare l’emozione del viaggio e del movimento, così come le immagini mostrano l’uscita in automobile dalla Fazioli. Questo vuol essere senza dubbio un finale felice, solare, come lo sono tutte le armonie, complesse ma sempre molto aperte ed eleganti, suonate sull’ormai caro Mago Merlino. Piani Paralleli rappresenta il dialogo, il momento in cui le regole del jazz e della musica classica si escludono, perché vanno a definire delle regole terze. C’è un parallelo tra le genti, le opere, i linguaggi e le epoche. Tra jazz e classica tutto era già scritto nel momento della loro nascita. La musica trattiene in sé lo stimolo a essere una, ad evolversi attraverso l’incontro e la sensibilità. I suoni e le idee, lo spunto momentaneo e il vissuto passato, i colleghi e gli allievi: questi sono i piani che Mazzarino riconosce come occasioni d’incontro. Parallele sono le linee che non s’incontrano mai alla loro fine (secondo la geometria euclidea) e proprio per questo sanno dialogare e nutrirsi a vicenda delle novità. Dice Mazzarino che paralleli sono i piani della cultura, che è una, perché nasce dall’integrazione; i piani della musica, che è una, e qui dà una soluzione a quel vetusto e arido binomio tra jazz e classica eterni rivali. Paralleli sono i piani della vita, che è una. Buona visione, e buon ascolto.
Il messaggio recitato da voce fuori campo con cui si apre il nuovo film di Gianni Di Capua è il nucleo da cui inizia la narrazione di un nuovo viaggio musicale. Si tratta di un racconto sull’essere musicista e compositore, su compositori e musicisti. Il film è interamente girato nella stupenda Fazioli Concert Hall di Sacile (PN) attigua all’importante fabbrica di pianoforti. Quelli prodotti qui sono strumenti eccezionali, fuori dal comune. Ognuno ha una personalità propria, distinta ed essenziale, dalla voce riconoscibile in maniera univoca. Il piano che suona il protagonista Giovanni Mazzarino, pianista e compositore siciliano tra i più importanti nel panorama del jazz contemporaneo, porta il nome di Mago Merlino. È battezzato così nella dedica scritta a pennarello sul telaio da parte del grande Aldo Ciccolini, il quale augurava nel 2005 “tanta felicità” agli artisti che l’avessero suonato dopo di lui.
Piani Paralleli (una produzione Bliq, Jazzy Records, Kublai Film, 2017) è un nuovo film-concerto che chi scrive suggerisce di andare a vedere, perché ti lascia con il desiderio di tornare al cinema una seconda volta, per riascoltarlo. Questo concerto a porte chiuse documenta un momento unico e straordinario, esattamente sulla scia dell’idea del momento, quello cioè delle prove e registrazione della Suite per Quartetto Jazz e Orchestra d’archi di Giovanni Mazzarino, che celebra così i suoi trent’anni di carriera. Il tutto è ripreso da tre telecamere che si muovono nella mezza luce della sala tra aste, microfoni, strumenti e luci, facendoti vivere l’esperienza di essere lì presente. La ripresa del suono è seguita da Stefano Amerio, apprezzato sound engineer di Artesuono di Udine.
Per Mazzarino la capacità, o meglio l’arte, di seguire l’idea del momento e di sapersi accontentare è la giusta modalità che muove l’intuito e la creatività del compositore. Essa non implica la rinuncia della ricerca di una nuova forma, anzi è proprio ciò che permette di andare avanti in tale ricerca. Si tratta di un atto che stimola la creatività, e non di una limitazione. Se così non fosse, s’instaurerebbe una lotta con se stessi, ripetutamente insoddisfatti e infelici della forma ottenuta: una modalità, questa, che rende sterile la ricerca creativa. Oppure sarebbe una lotta per cercare di uscire forzatamente da qualsiasi codice prestabilito, finendo col perdere tante occasioni che definiscono la nostra esperienza e la capacità di rinnovare il linguaggio musicale.
Il protagonista spiega che i suoi collaboratori sono persone, musicisti alla continua ricerca di un’idea musicale. Perché la musica è un racconto di idee. La musica così intesa, secondo Mazzarino, non è di tutti. Suonare uno strumento è di tutti, perché è un mezzo di espressione che tutti possono usare. Ma trovare la strada per tradurre in musica una poetica, questo no, non è di tutti. L’apprezzamento, l’estasi o la critica nei confronti di un’opera musicale sono di tutti, ma pochi sono gli autentici cercatori d’idee. Perché è nel mondo delle idee, riprendendo il principio fondamentale della filosofia platonica, che la musica esiste. La conoscenza è di tutti, continua Mazzarino, ma il contato con l’idea è un principio più esoterico, destinato a pochi.
Steve Swallow è uno di questi ricercatori, bassista che è una leggenda vivente del jazz moderno. Lui suona (ancora) il basso elettrico a cinque corde con il plettro, perché lui ricerca un suono identitario. È un musicista che “scrive senza far rumore” perché nella sua lirica e nella tecnica pensa come un solista. Egli esprime una sintesi completa del sentire e della sensibilità, quel contatto con l’idea, con il momento dell’idea, che si traduce in un gusto raffinato per la melodia.
Tutto il jazz è musica del momento. Una definizione di jazz può essere quella che lo vede come un movimento culturale che fondamentalmente rappresenta l’integrazione. Il jazz è come un racconto di ognuno e di tutti allo stesso tempo. Attraverso la conoscenza, che è di tutti, gli opposti si attraggono, si scrutano prima e si apprezzano poi, e infine…suonano insieme, se sono musicisti. Jazzista di grande fama, Fabrizio Bosso traspone sul suo strumento la cantabilità ricercata dal compositore. Tromba e flicorno sono i solisti più compatibili con l’orchestra da camera, scelta perché gli archi (violino, viola, violoncello, contrabbasso) sono gli strumenti dalla più spiccata forza melodica, capace di creare un dramma.
Bosso è musicista speciale, che porta in sé un “mondo bello”, riportando le parole di Mazzarino. Perché crediamo sia un mondo bello, quello delle idee. Sono idee sincere e di verità, quelle che sanno creare una musica che fa convivere il quartetto jazz con l’orchestra d’archi. Questi solo apparentemente (ma pare che ancora in molti non ci credano) sono mondi lontani. Sono diversi, e nella diversità si trova la creazione del nuovo. Grande capacità di sintesi quella che distingue Paolo Silvestri, arrangiatore del progetto e direttore della sezione d’archi. Sua la capacità di scrivere per gli archi in modo da far suonare dei musicisti classici, con il loro linguaggio, delle parti che dialogano sempre in parallelo con i musicisti jazz e con il loro linguaggio. L’Orchestra Accademia d’Archi Arrigoni ha un’estrema sensibilità nei confronti delle dinamiche e della creazione di atmosfere coloristiche. Riesce a portare tutto il suo bagaglio di esperienza classica a fondersi con la lirica rigogliosa di Fabrizio Bosso, che improvvisa con frasi di lungo respiro. Creare l’atmosfera giusta è l’obiettivo riuscitissimo di Paolo Silvestri, in particolare con richiami alla musica colta del Novecento, come quella di Hindemith e Ravel.
Tutta la suite è un quadro di mille colori e timbri, un fertile incontro di scrittura e improvvisazione, ricco di cambi di ritmo e di metro. La batteria di Adam Nussbaum – altro collaboratore di lunga data di Mazzarino, al pari di Swallow – è il collante di tutto il gruppo, con un tocco tanto leggero quanto carico d’energia, e sempre elegantissimo nel portare il tempo e, insieme, nel sottolineare gli accenti. Per Mazzarino la batteria è lo strumento che serve a far sentire sempre le note importanti, perché rinforza e carica di senso le melodie. Si tratta anche in questo caso di un musicista estremamente sensibile e dal raffinato senso melodico. L’opera tutta è un lungo canto: vedendo e ascoltando tutto il film sembra un’unica lunghissima melodia senza fine. Interessante proporre in questi anni una suite jazzistica (ricordiamo qui il celebre esempio di Freedom, composta da Duke Ellington per il suo Second Sacred Concert), che sa sintetizzare in una lingua contemporanea l’antica tecnica compositiva del tema e del suo sviluppo.
Un particolare prezioso è che nell’orchestra sono presenti anche dei giovanissimi musicisti, che dividono il leggio con chi è più adulto e porta una lunga esperienza. Sono le persone più giovani quelle forse più adatte a fare nuova musica, per loro inclinazione e curiosità. Il compositore, nel pensiero di Mazzarino mentre racconta il film, tende all’innovazione del linguaggio. La vera innovazione è quella che egli opera su se stesso. La nuova creazione e il rinnovamento avvengono però in seno all’attesa, questa è la novità. L’innovazione coincide con l’attendere il momento creativo. Il film ci insegna che nell’attesa c’è tutto ciò che serve per voltare pagina. Il tempo del raccoglimento riflessivo non è mai perso: al contrario, è tempo necessario per prendere coscienza di ciò che abbiamo, accontentandoci di ciò che siamo. Questo stato di coscienza nel presente mi permette di nutrire i semi del rinnovamento creativo. Per fare la mia nuova musica posso iniziare apprezzando l’attesa del momento più adatto ad affermare una mia idea nuova. La qualità del momento presente dà al compositore la possibilità di gioire alla futura sorpresa, quando starà scrivendo, forse, la prossima suite.
La musica è un luogo retto da regole naturali di relazione, come quelle matematiche tra le altezze, quelle qualità sonore che percepiamo come note. Nella filosofia musicale di Mazzarino “la bellezza è il contorno alle regole naturali di relazione”. La musica è relazione: tra mondo ideale e terreno, tra musicisti, tra compositore e arrangiatore, e tra generi musicali. Di tutte le forme d’arte è certamente quella che più incarna il senso della relazione.
La relazione implica la fiducia, e cioè quella qualità che mi permette di essere libero mentre suono. Sono libero se posso essere concentrato sullo strumento, sapendo che chi suona con me è altrettanto rispettoso di se stesso, del gruppo: infine della musica. La fiducia è tratto essenziale che devono avere i musicisti gli uni nei confronti degli altri, e anche di tutti gli altri collaboratori, come arrangiatori e tecnici. Un’opera crea un dramma quando ti sa trasportare dentro il suo mondo, che ha le stesse regole che governano ogni relazione tra gli uomini.
Piazza è il brano dedicato a Piazza Armerina, città natale del protagonista. Egli dice che “la piazza è il luogo in cui la gente s’incontra a sperare un mondo migliore”. Le riprese ci mostrano come Mazzarino, nell’esporre il tema così lirico e drammatico con la mano destra, non riesca a trattenere la sinistra dal fare segretamente il gesto della direzione d’orchestra. Mazzarino dirige forse nel suo intimo questo pezzo che unisce le genti, il nord con il sud, perché esiste una verità: essi non sono diversi, e sanno parlare la stessa lingua.
Notturno è un brano di musica classica, suonato in piano trio. È una melodia che ha un non so che di sacro: parla al cuore attraverso quella che Mazzarino definisce forza triadica, la forma armonica più semplice, che è diretta ed efficace…forse, infine, voleva dire che è vera.
Piani Paralleli inizia con un’introduzione classica di soli archi, che ricorda il suono del celebre Gershwin’s World di Herbie Hancock. Il brano che dà il titolo al film ha la tipica energia di brano conclusivo, una summa dei temi e delle idee prima esposte negli altri pezzi, con una coda finale ritmicamente molto incalzante, che fa davvero immaginare l’emozione del viaggio e del movimento, così come le immagini mostrano l’uscita in automobile dalla Fazioli. Questo vuol essere senza dubbio un finale felice, solare, come lo sono tutte le armonie, complesse ma sempre molto aperte ed eleganti, suonate sull’ormai caro Mago Merlino. Piani Paralleli rappresenta il dialogo, il momento in cui le regole del jazz e della musica classica si escludono, perché vanno a definire delle regole terze. C’è un parallelo tra le genti, le opere, i linguaggi e le epoche. Tra jazz e classica tutto era già scritto nel momento della loro nascita. La musica trattiene in sé lo stimolo a essere una, ad evolversi attraverso l’incontro e la sensibilità. I suoni e le idee, lo spunto momentaneo e il vissuto passato, i colleghi e gli allievi: questi sono i piani che Mazzarino riconosce come occasioni d’incontro. Parallele sono le linee che non s’incontrano mai alla loro fine (secondo la geometria euclidea) e proprio per questo sanno dialogare e nutrirsi a vicenda delle novità. Dice Mazzarino che paralleli sono i piani della cultura, che è una, perché nasce dall’integrazione; i piani della musica, che è una, e qui dà una soluzione a quel vetusto e arido binomio tra jazz e classica eterni rivali. Paralleli sono i piani della vita, che è una. Buona visione, e buon ascolto.
ROBERTO CALABRETTO
PIANIPARALLELI, UN FILM-CONCERTO DI GIANNI DI CAPUA
PIANIPARALLELI, UN FILM-CONCERTO DI GIANNI DI CAPUA
Nel motivare le scelte adottate per filmare una performance concertistica, Jean-Pierre Ponnelle, regista che più volte si è confrontato con simili situazioni, ha detto: «Quel che è dinamica nella musica, lo rivedo nel cinema nelle carrellate, nei movimenti di macchina, nelle zoomate e così via. Le armonie della musica, il verticale, li trovo nel cinema nelle analogie cromatiche, nelle possibilità d’inquadratura dalla panoramica al primo piano. Ai ritmi musicali corrisponde il montaggio, che va effettuato esattamente secondo la partitura». Queste parole stanno a sottolineare come filmare la musica significhi offrire una sua interpretazione. Cogliere un evento concertistico con la macchina da presa comporta una particolare lettura della performance e, talvolta, la messa in atto di equivalenze fra il linguaggio delle immagini e quello dei suoni. La macchina da presa, pertanto, dev’essere sempre in grado di interagire creativamente con l’evento concertistico, come suggerisce Dany Bloch che ha sottolineato come sia maggiormente interessante quell’uso in cui «la troupe dei videocameramen risulta essere un partner privilegiato dell’artista protagonista della performance». Facendo riferimento alla nota classificazione degli impieghi del video, potremmo definire due tipologie: «nella prima [“video caldo”] l’artista ha un rapporto diretto con lo strumento, che usa per scopi creativi; nella seconda [“video freddo”] l’artista ha un rapporto mediato con lo strumento, che viene usato da altri sulla sua opera creativa e con finalità prevalentemente documentative o didattiche», come ben ricorda Angela Madesani.
Queste parole sono senza dubbio la miglior premessa per avvicinarsi alla produzione di Gianni Di Capua che, nel corso della propria esperienza, più volte si è confrontato con la musica giungendo a risultati di primissimo piano con le opere del catalogo di Luigi Nono e con allestimenti estremamente complessi, come Medea di Adriano Guarnieri o il recente Zoroastro di Jean-Philippe Rameau. Le operazioni di Di Capua hanno sempre trovato un largo consenso per la fedeltà con cui si sono avvicinate al testo musicale, assunto senza libere interpolazioni ma piuttosto adeguando gli strumenti del linguaggio visivo alle esigenze della musica. Al contrario di coloro che hanno lavorato per accumulazione, rendendo spesso insopportabile l’ascolto-visione di un’opera, Di Capua invece opera per sottrazione, consapevole che la musica debba giungere ugualmente al destinatario senza alcuna sovrabbondanza di elementi visivi.
La sua distanza dagli abituali strumenti della comunicazione televisiva cui il pubblico è assuefatto è abissale. In lui vi è radicata la consapevolezza che le potenzialità di una performance musicale nel corso del tempo siano state sempre più svilite e mortificate da scelte molto dozzinali e banali da parte del linguaggio televisivo che «frantuma, decostruisce, falsifica e ripristina significati. Occorre pertanto essere consapevoli dei suoi meccanismi perversi nei quali assistiamo ad una smaterializzazione della realtà e dove l’attenzione dell’uomo viene distolta dal mondo naturale per concentrarsi sul mondo della comunicazione che risulta essere un valore assoluto». La televisione, per dirla con Baudrillard, è «il medium più corruttivo della rappresentazione del mondo e del quale viviamo una sua simulazione».
Questa voluta presa di distanza si manifesta in ben precise scelte stilistiche che caratterizzano la poetica di Di Capua che, anche in Piani Paralleli, fa costantemente uso del piano sequenza che, al contrario, la sintassi televisiva ha totalmente estromesso dal proprio linguaggio. Egli, invece, detesta quando una ripresa televisiva fa lo “spezzatino” di una frase musicale alternandone la visione dell’esecuzione da più punti di vista e scadendo inevitabilmente nel didascalico. La televisione perpetra un modello oramai assimilato dal pubblico che invece si rivela essere l’affermazione di un puro e semplice dilettantismo che non ha alcuna ragione musicale. Ecco perché Di Capua cerca costantemente di mantenere intatte alcune coordinate compositive che, nella musica Jazz, diventano apicali nei cosiddetti assolo. Veri virtuosismi “drammatici” che definiscono il brano evidenziando la personalità di ciascun musicista, come Giovanni Mazzarino racconta nel corso del film, riferendosi a ciascuno dei musicisti coinvolti nella registrazione della Suite da lui composta. Basti pensare agli assoli della tromba, “tenuti” in piano sequenza ravvicinato che hanno comportato un allestimento del set molto particolare. In questo caso, infatti, i binari su cui era stata stata fatta collocare la camera erano predisposti in modo da consentire alla camera principale di “narrare” quanto veniva eseguito, assecondando un ben preciso topos del linguaggio cinematografico di Di Capua. Come accade nel recente Zoroastro, anche in questo caso il regista non si preoccupa di “camuffare” il set ma, al contrario, di evidenziarlo.
Filmare una performance jazz, come si può ben vedere, impone delle ben precise scelte stilistiche che lo stesso Di Capua riassume in una frase, efficace quanto suggestiva, che ben riassume l’idea che sta alla base di Piani Paralleli. «Se il racconto cinematografico è la narrativa popolare per eccellenza, in musica lo è Jazz», ha detto il regista nel motivare le proprie scelte. Nella ripresa della musica Jazz, contrariamente alla musica classica, la lettura attenta della partitura è relativa: occorre invece cogliere nei momenti degli assoli il senso del racconto musicale oppure, se vogliamo, il momento topico del brano musicale. Il film di Di Capua vuole offrire allo sguardo dello spettatore non il dettaglio ma una narrazione che, lungi dal sostituire la ripresa alla sala da concerto, diventa invece un momento “altro” della ricezione del testo musicale.
Piani Paralleli potrebbe essere definito come un film claustrofobico, come lo è del resto la condizione della musica prodotta in una sala di registrazione. Se questi sono i luoghi, gli spazi della musica risiedono invece nel suo ascolto. Una scelta apparentemente semplice, naturale, che però sul piano della sua realizzazione comporta un notevole dispendio di risorse in termini di allestimento del set cinematografico. Ecco perché nella Fazioli Concert Hall di Sacile è stato disposto un binario che, nell’idea originale, avrebbe dovuto abbracciare tutto il perimetro dello spazio musicale, dove si trovava l’orchestra e il quartetto, senza soluzione di continuità con una sola cinepresa. Purtroppo le dimensioni della scena della Concert Hall e l’ingombro non hanno potuto rendere possibile l’idea, per cui sono stati predisposti tre percorsi di binari con tre carrelli con ciascuno montata una cinepresa. In fase di ripresa è stato poi simulato un “continuum”, ossia un movimento di camera sempre in azione e, senza soluzione di continuità, laddove si esauriva il percorso di una cinepresa definito dalla lunghezza del binario ne subentrava una seconda e poi una terza, al fine di proseguire la “narrazione”. Non bisogna dimenticare che la cinepresa per sua natura tende ad escludere: inquadrare un soggetto significa soprattutto scegliere cosa non mostrare o, perlomeno, essere consapevoli di questo aspetto incontrovertibile che nel genere fiction, invece, è ribaltato. Qui, infatti, nello spazio dell’inquadratura il regista compone il proprio racconto visivo mentre nel documentario è costretto ad escludere, ossia ad operare una scelta in subordine al racconto della realtà che, in ultima analisi, costituisce una sintesi elaborata dal regista. Ecco perché la televisione si rivela uno strumento inadeguato a mostrare performance musicali, tanto più quelle dal vivo, contrariamente al cinema che si pone di segno diametralmente opposto a partire dal luogo preposto alla sua “rappresentazione” in cui la dimensione dello spazio si può realizzare in tutta la sua complessità.
In Piani Paralleli Giovanni Mazzarino s’intrattiene, quasi fosse un dialogo intimo, con la propria musica e con i musicisti chiamati ad interpretala. Musicisti dalle caratteristiche peculiari che apportano sensibilità e opportunità di confronto che la cinepresa documenta affiancando il processo creativo musicale rivelando, infine, un’opera composita, impregnata dalle suggestioni provenienti dalla terra di origine dell’eclettico compositore, forgiata dalle tradizioni musicali più disparate. La voce fuori campo che rapsodicamente intercala il film porta il compositore ad intrattenersi in un dialogo intimo con la propria musica che, parallelamente, sta per essere allestita in un serrato confronto tra ingegneri del suono e i musicisti convocati ad interpretarne il pensiero. La sua musica scorre naturalmente sul movimento del piano sequenza portando a una messa in atto di equivalenze fra il linguaggio delle immagini e quello dei suoni dove l’ultima nota in chiusura del film, eseguita dall’insieme strumentale ora immobile, riverbera nel chiaroscuro della Fazioli Concert Hall evocando un tempo sospeso che il cinema consegna, perché ne ha la prerogativa, al suo essere di nuovo, epifania dell’istante, anima del Jazz. La cinepresa transita d’incanto all’esterno e inizia ad intraprendere un viaggio nella luce del crepuscolo lungo un cammino senza fine.
Ancora una volta il cinema si offre come un rito collettivo.
Queste parole sono senza dubbio la miglior premessa per avvicinarsi alla produzione di Gianni Di Capua che, nel corso della propria esperienza, più volte si è confrontato con la musica giungendo a risultati di primissimo piano con le opere del catalogo di Luigi Nono e con allestimenti estremamente complessi, come Medea di Adriano Guarnieri o il recente Zoroastro di Jean-Philippe Rameau. Le operazioni di Di Capua hanno sempre trovato un largo consenso per la fedeltà con cui si sono avvicinate al testo musicale, assunto senza libere interpolazioni ma piuttosto adeguando gli strumenti del linguaggio visivo alle esigenze della musica. Al contrario di coloro che hanno lavorato per accumulazione, rendendo spesso insopportabile l’ascolto-visione di un’opera, Di Capua invece opera per sottrazione, consapevole che la musica debba giungere ugualmente al destinatario senza alcuna sovrabbondanza di elementi visivi.
La sua distanza dagli abituali strumenti della comunicazione televisiva cui il pubblico è assuefatto è abissale. In lui vi è radicata la consapevolezza che le potenzialità di una performance musicale nel corso del tempo siano state sempre più svilite e mortificate da scelte molto dozzinali e banali da parte del linguaggio televisivo che «frantuma, decostruisce, falsifica e ripristina significati. Occorre pertanto essere consapevoli dei suoi meccanismi perversi nei quali assistiamo ad una smaterializzazione della realtà e dove l’attenzione dell’uomo viene distolta dal mondo naturale per concentrarsi sul mondo della comunicazione che risulta essere un valore assoluto». La televisione, per dirla con Baudrillard, è «il medium più corruttivo della rappresentazione del mondo e del quale viviamo una sua simulazione».
Questa voluta presa di distanza si manifesta in ben precise scelte stilistiche che caratterizzano la poetica di Di Capua che, anche in Piani Paralleli, fa costantemente uso del piano sequenza che, al contrario, la sintassi televisiva ha totalmente estromesso dal proprio linguaggio. Egli, invece, detesta quando una ripresa televisiva fa lo “spezzatino” di una frase musicale alternandone la visione dell’esecuzione da più punti di vista e scadendo inevitabilmente nel didascalico. La televisione perpetra un modello oramai assimilato dal pubblico che invece si rivela essere l’affermazione di un puro e semplice dilettantismo che non ha alcuna ragione musicale. Ecco perché Di Capua cerca costantemente di mantenere intatte alcune coordinate compositive che, nella musica Jazz, diventano apicali nei cosiddetti assolo. Veri virtuosismi “drammatici” che definiscono il brano evidenziando la personalità di ciascun musicista, come Giovanni Mazzarino racconta nel corso del film, riferendosi a ciascuno dei musicisti coinvolti nella registrazione della Suite da lui composta. Basti pensare agli assoli della tromba, “tenuti” in piano sequenza ravvicinato che hanno comportato un allestimento del set molto particolare. In questo caso, infatti, i binari su cui era stata stata fatta collocare la camera erano predisposti in modo da consentire alla camera principale di “narrare” quanto veniva eseguito, assecondando un ben preciso topos del linguaggio cinematografico di Di Capua. Come accade nel recente Zoroastro, anche in questo caso il regista non si preoccupa di “camuffare” il set ma, al contrario, di evidenziarlo.
Filmare una performance jazz, come si può ben vedere, impone delle ben precise scelte stilistiche che lo stesso Di Capua riassume in una frase, efficace quanto suggestiva, che ben riassume l’idea che sta alla base di Piani Paralleli. «Se il racconto cinematografico è la narrativa popolare per eccellenza, in musica lo è Jazz», ha detto il regista nel motivare le proprie scelte. Nella ripresa della musica Jazz, contrariamente alla musica classica, la lettura attenta della partitura è relativa: occorre invece cogliere nei momenti degli assoli il senso del racconto musicale oppure, se vogliamo, il momento topico del brano musicale. Il film di Di Capua vuole offrire allo sguardo dello spettatore non il dettaglio ma una narrazione che, lungi dal sostituire la ripresa alla sala da concerto, diventa invece un momento “altro” della ricezione del testo musicale.
Piani Paralleli potrebbe essere definito come un film claustrofobico, come lo è del resto la condizione della musica prodotta in una sala di registrazione. Se questi sono i luoghi, gli spazi della musica risiedono invece nel suo ascolto. Una scelta apparentemente semplice, naturale, che però sul piano della sua realizzazione comporta un notevole dispendio di risorse in termini di allestimento del set cinematografico. Ecco perché nella Fazioli Concert Hall di Sacile è stato disposto un binario che, nell’idea originale, avrebbe dovuto abbracciare tutto il perimetro dello spazio musicale, dove si trovava l’orchestra e il quartetto, senza soluzione di continuità con una sola cinepresa. Purtroppo le dimensioni della scena della Concert Hall e l’ingombro non hanno potuto rendere possibile l’idea, per cui sono stati predisposti tre percorsi di binari con tre carrelli con ciascuno montata una cinepresa. In fase di ripresa è stato poi simulato un “continuum”, ossia un movimento di camera sempre in azione e, senza soluzione di continuità, laddove si esauriva il percorso di una cinepresa definito dalla lunghezza del binario ne subentrava una seconda e poi una terza, al fine di proseguire la “narrazione”. Non bisogna dimenticare che la cinepresa per sua natura tende ad escludere: inquadrare un soggetto significa soprattutto scegliere cosa non mostrare o, perlomeno, essere consapevoli di questo aspetto incontrovertibile che nel genere fiction, invece, è ribaltato. Qui, infatti, nello spazio dell’inquadratura il regista compone il proprio racconto visivo mentre nel documentario è costretto ad escludere, ossia ad operare una scelta in subordine al racconto della realtà che, in ultima analisi, costituisce una sintesi elaborata dal regista. Ecco perché la televisione si rivela uno strumento inadeguato a mostrare performance musicali, tanto più quelle dal vivo, contrariamente al cinema che si pone di segno diametralmente opposto a partire dal luogo preposto alla sua “rappresentazione” in cui la dimensione dello spazio si può realizzare in tutta la sua complessità.
In Piani Paralleli Giovanni Mazzarino s’intrattiene, quasi fosse un dialogo intimo, con la propria musica e con i musicisti chiamati ad interpretala. Musicisti dalle caratteristiche peculiari che apportano sensibilità e opportunità di confronto che la cinepresa documenta affiancando il processo creativo musicale rivelando, infine, un’opera composita, impregnata dalle suggestioni provenienti dalla terra di origine dell’eclettico compositore, forgiata dalle tradizioni musicali più disparate. La voce fuori campo che rapsodicamente intercala il film porta il compositore ad intrattenersi in un dialogo intimo con la propria musica che, parallelamente, sta per essere allestita in un serrato confronto tra ingegneri del suono e i musicisti convocati ad interpretarne il pensiero. La sua musica scorre naturalmente sul movimento del piano sequenza portando a una messa in atto di equivalenze fra il linguaggio delle immagini e quello dei suoni dove l’ultima nota in chiusura del film, eseguita dall’insieme strumentale ora immobile, riverbera nel chiaroscuro della Fazioli Concert Hall evocando un tempo sospeso che il cinema consegna, perché ne ha la prerogativa, al suo essere di nuovo, epifania dell’istante, anima del Jazz. La cinepresa transita d’incanto all’esterno e inizia ad intraprendere un viaggio nella luce del crepuscolo lungo un cammino senza fine.
Ancora una volta il cinema si offre come un rito collettivo.
ARTRIBUNE
MAZZARINO SUONA E RACCONTA LA SUA MUSICA
MARGHERITA BORDINO
MAZZARINO SUONA E RACCONTA LA SUA MUSICA
MARGHERITA BORDINO
Mazzarino suona e racconta la sua musica | Artribune
Farsi conquistare e guidare dalla musica, da questa musica, quella del film Piani Paralleli è una cosa imprescindibile. Cosa prova un grande musicista quando ascolta suonare se stesso? Inizia con una riflessione sulla musica il film concerto di Gianni Di Capua. "Dalla suite per quartetto jazz e orchestra d'archi di Giovanni Mazzarino", come recitano i titoli di testa.
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PIANIPARALLELI DI GIANNI DI CAPUA
PIANIPARALLELI DI GIANNI DI CAPUA
Piani paralleli di Gianni Di Capua - la recensione di FilmTv - recensione
La promozione di Piani paralleli - Il disco dice che la suite per quartetto jazz e orchestra d'archi è "come una colonna sonora"; ed ecco dunque Piani paralleli - Il film, diretto dal veterano di doc musicali Gianni Di Capua.